Mi sono indotto a leggere "La Deriva - Perché l'Italia rischia il naufragio" di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, Rizzoli Milano 2008. Premetto che dei due bravi Autori non ho letto il precedente "La Casta" un po' perché non amo le liste delle malefatte - che mi sono purtroppo ben note - dei nostri uomini di potere. (Gli elenchi, scarsi di analisi, mi annoiano abbastanza), un po' perché il titolo mi richiama alla mente l'immagine di una signora di severi costumi più che quella di un'accolta di potenti abbarbicati ai loro previlegi. Una sorta di "Il Fallo di una Donna Onesta" (l'unico Capuana letto in gioventù) alla rovescia, altro titolo che non riconnetto istintivamente alla storia di un errore fatale. Comunque, il libro mi guarda severo da uno scaffale della mia biblioteca, ma resisto bravamente!
Mi fermo un attimo sui frequenti e reiterati slittamenti di senso ai quali vado soggetto nel leggere, descrivendone uno al quale sono particolarmente affezionato: Nell'atrio di una sala convegni che frequento, è apposta una targa a ricordo di una strage nazifascista avvenuta nei pressi. La targa, che mi è ben nota (l'ho letta decine di volte) inizia con un vibrato appello: "Barbarie mai più..." Ebbene, tutte le volte vi leggo: "Barbie mai più...." e trovo che quest'invito a rinunciare ad uno dei simboli più dolciastri ed insulsi di un consumismo ebete e razzista sia delizioso nel suo utopico ottimismo. Per la barbarie, poi, temo che sia necessaria ben più di una targa, come i padani si stanno incaricando di dimostrarci.
Tornando al nostro testo, la lettura (pausa pranzo in ufficio!) mi ha confermato nei miei sospetti: altro elenco, documentatissimo, con tanto di nomi e cognomi, date e luoghi, tutto al posto giusto ma scarso di inquadramento, di sintesi, insomma una sorta di articolone di cronaca dilatato oltre misura in cui gli esempi di malcostume, suddivisi per campi, si affastellano uno sull'altro elidendosi ben presto a vicenda nella sazietà disgustata del lettore. Solo un brano, nelle prime pagine, (pag. X) mi ha colpito: é una citazione da un articolo di Mario Vargas Llosa apparso su "La Stampa" a proposito dell'Argentina attuale, che trascrivo integralmente. Il poeta, le cui riflessioni si applicano perfettamente anche al mio sventurato Paese, si pone una domanda, ma questa contiene assai più risposte dell'ammasso di misfatti e dementi furbizie elencato nel resto del libro.
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Mario Vargas Llosa - Requiem per l'Argentina da Borges ai "piqueteros"
La biblioteca «Miguel Cane», nel quartiere Boedo di Buenos Aires, è un modesto locale con soffitti alti, vecchi scaffali e vecchie scrivanie, diventato meta d'un pellegrinaggio culturale per tutti i turisti, più o meno alfabetizzati, che arrivano in città. Perché qui, per nove anni, dal 1937 al 1947, ha lavorato Jorge Luis Borges come umile aiuto bibliotecario, impegnato a registrare e classificare libri in una stanzetta senza finestre al secondo piano dove ora sono esposte, in vetrina, le prime edizioni di alcuni suoi libri.
Non molto tempo fa è venuto qui lo scrittore inglese Julian Barnes e ha lasciato un pensiero ammirato per l'autore di «Finzioni». Io mi sento preso dall'emozione se penso agli oscuri anni di quest'aiuto bibliotecario che, dice la leggenda, durante l'ora di tram da casa al posto di lavoro, ha imparato da solo l'italiano e, praticamente, mandato a memoria la Divina Commedia. Oltre, naturalmente, a trovare il tempo per scrivere i racconti della sua opera fondamentale, «Finzioni», del 1944.
Borges è una delle cose più importanti capitate all'Argentina, alla lingua spagnola, alla letteratura nel XX secolo. Ed è certo che questa sua particolare forma di genialità - l'eccentricità degli interessi, l'oceanica cultura letteraria, la visione universale della vita e la lucidità della prosa - non sarebbe stata possibile al di fuori del contesto sociale e culturale di Buenos Aires che è, probabilmente, con Parigi, la città più letteraria del mondo. Tutte e due le capitali indossano, come una seconda pelle, una veste letteraria intessuta di miti, leggende, fantasie, aneddoti, immagini che rimandano a racconti, poesie, romanzi, autori e regalano una dimensione tra il fantastico e il libresco a tutto ciò che appartiene loro: cose, case, quartieri, strade e persone.
Molto di quell'Argentina di lettori voraci e universali, di frenetici cosmopoliti e di formidabili poliglotti ancora esiste nella decadente Buenos Aires in cui sono tornato dopo parecchi anni: nelle sue meravigliose librerie di Florida e di Corrientes aperte sino a notte fonda, nei suoi caffè letterari dove si sono cucinate grandi polemiche estetiche e politiche e sono nate quelle riviste culturali che circolavano nell'intera America Latina e ci facevano scoprire tutto ciò che di importante, in campo artistico e letterario, capitava nel resto del mondo. Le pareti del caffè Margot sono piene di scritte, foto e ricordi di illustri autori, musicisti, pittori che si sono seduti e hanno bevuto e hanno discusso per notti intere a questi tavolini fragili e vicinissimi l'uno all'altro dove, con un gruppo di amici, ora ricordiamo alcune glorie passate: Victoria Ocampo, Maria Rosa Oliver, José Bianco. In un angolo del famoso Caffè Tortoni c'è un tavolo al quale è accomodato un Borges di cartapesta a grandezza naturale.
Ma è, soprattutto, in certe persone che questa tradizione civile e intellettuale è ancora viva: dopo molti anni ho avuto la fortuna di incontrare il saggista e filosofo Juan José Seebreli e pochi minuti di conversazione sono bastati per rendermi conto, ancora una volta, della solidità e della vastità della sua cultura filosofica, della disinvoltura con la quale si muove lungo i mondi della storia, della politica, della letteratura. Come molti argentini che ho conosciuto, mi da l'impressione d'uno che abbia letto tutti i libri.
Borges fu allontanato dal lavoro nella biblioteca «Miguel Cane» dal governo di Perón, nel 1946, e degradato, per la sua opposizione al regime, a ispettore municipale ai pollai. E', questo, un simbolo chiaro dell'imbarbarimento della politica che avrebbe portato l'Argentina a una «deriva latinoamericana» e rivelato agli argentini, dopo qualche anno, che essi non erano ciò che in molti credevano d'essere - cittadini d'un paese europeo, colto, civile e democratico, situato per caso in Sud America - ma, purtroppo, nient'altro che una nazione del Terzo Mondo, sottosviluppata e incivile.
L'involuzione da paese più ricco e più «educato» dell'America Latina -una delle prime società del pianeta a sconfiggere l'analfabetismo grazie a un magnifico sistema scolastico - alla realtà attuale è una storia ancora tutta da scrivere. E quando qualcuno la scriverà, ciò che verrà alla luce sarà una sorta di «finzione» borgesiana: un'intera nazione che, a poco a poco, rinuncia a tutto ciò che di essa ha fatto un Paese del primo mondo - la democrazia, l'economia di mercato, l'integrazione con il resto del pianeta, le istituzioni civili, la cultura dell'accoglienza - per impoverirsi, dividersi, insanguinarsi, provincializzarsi, obnubilata dal populismo, dalla demagogia, dall'autoritarismo, dalla dittatura e dal delirio messianico. In estrema sintesi: passare da Jorge Luis Borges ai «piqueteros».
Sono, costoro, l'emblema dell'altra Argentina, quella che ha rifiutato la strada delle civiltà optando per la barbarie. In origine erano, sembra, disoccupati ed emarginati che scendevano in strada per chiedere attenzione e lavoro a un potere che li ignorava, al mondo di quell'ufficialità senz'anima che voltava le spalle a chi più aveva bisogno. Ora sono, piuttosto, la forza d'urto del potere politico. La scorsa notte sono usciti con i loro randelli per scontrarsi con chi si schierava a fianco degli agricoltori che protestavano in Plaza de Mayo per le nuove tasse decise dal governo di Cristina Kirchner sui prodotti della terra. E, effettivamente, li hanno dispersi a bastonate e a calci, in nome della rivoluzione.
Quale rivoluzione? Quella dell'odio. Lo spiega molto bene il loro leader, Luis D'Elias, quando sostiene che la colpa di questa mobilitazione degli agricoltori contro il governo è dei «bianchi». E aggiunge che lui «odia» i bianchi del quartiere Nord e vorrebbe «farla finita» con loro. Domando ai miei amici argentini che cosa voglia dire il leader «picotero» con il termine «bianchi», perché, ovunque io giri lo sguardo e per quanti sforzi io faccia, in Argentina vedo esclusivamente bianchi. Il «picotero» vuole, forse, farla finita con quaranta milioni di suoi compatrioti? Non vedo argentini neri, indi, mulatti, ad eccezione di turisti o di immigrati: D'Elias, nelle sue fantasie omicide e razziste, è disposto a salvare solo costoro?
Qualche giorno dopo ho avuto modo di vedere molto da vicino circa duecento «picoteros» che assaltano il bus che mi sta portando dalla Borsa del Rosario all'Istituto della Libertà, un organismo che compie vent'anni in un anniversario che molti liberali provenienti da tutto il mondo siamo venuti a celebrare. Mentre restiamo bloccati dal giovane manipolo del signor Luis D'Elias - poteva andare anche peggio, visto che questo è solo ultra e, in Argentina, ci sono anche gli ultrà-ultrà - per dieci-quindici minuti in Plaza de la Cooperación e costoro, mettendo in pratica la filosofia del loro mentore, spaccano i vetri del pullman, lo ammaccano a bastonate e a colpi di pietra e lo macchiano con secchiate di vernice, ho tempo e modo di studiare da vicino le facce furibonde dei nostri aggressori. Sono tutti bianchi che più bianchi non si può. I miei compagni e io stiamo debitamente fermi, ma non posso fare a meno d'interrogarmi su cosa succederebbe se, prima che arrivino a liberarci, gli agguerriti «piqueteros» che ci lanciano sassi gettassero una bomba molotov nel bus o riuscissero ad aprire quella porta che stanno provando a scardinare con grande impegno. Ho festeggiato i 72 anni tentando di oppormi con le mie povere forze alla schiacciante furia di quest'orda di selvaggi. Quando tutto finisce, la giovane giornalista equadoriana Gabriela Calderón - è così minuta che è riuscita a infilarsi sotto il sedile come una contorsionista - mi domanda molto seriamente se cose di questo genere mi succedono in tutte le città che visito. Le rispondo di no: tutto questo mi è successo solo nella carissima città di Rosario.
Mi è davvero cara, Rosario, per i tanti ricordi che a essa mi legano e perché è la terra del mio amico Gerardo Dongiovanni e di Mario Borgonovo, un pubblicista che, quando si lancia a cantare tanghi, per ascoltarlo scendono gli angeli dal cielo e salgono i diavoli dall'inferno. Gerardo ha costituito con quattro amici, nel 1988, la Fondazione Libertad, per promuovere nel Paese le idee liberali. Dopo vent'anni questo istituto è una fucina di pensiero, di dibattiti, di pubblicazioni, di seminari e di conferenze che conducono la quotidiana battaglia per la modernizzazione, la tolleranza, il progresso, la democrazia, la prosperità contro quanti ce la mettono tutta per continuare a far retrocedere l'Argentina verso quella che Popper definiva «la cultura della tribù». Durante le discussioni, le tavole rotonde e le mostre di questi giorni, proprio come nell'emozionante mattina in cui ho visitato la biblioteca «Miguel Cane» di Boedo, mi dico, con qualche speranza, che non tutto è perduto e che il fantasma di Borges potrà ancora risvegliare l'Argentina dall'incubo dei «piqueteros».
La biblioteca «Miguel Cane», nel quartiere Boedo di Buenos Aires, è un modesto locale con soffitti alti, vecchi scaffali e vecchie scrivanie, diventato meta d'un pellegrinaggio culturale per tutti i turisti, più o meno alfabetizzati, che arrivano in città. Perché qui, per nove anni, dal 1937 al 1947, ha lavorato Jorge Luis Borges come umile aiuto bibliotecario, impegnato a registrare e classificare libri in una stanzetta senza finestre al secondo piano dove ora sono esposte, in vetrina, le prime edizioni di alcuni suoi libri.
Non molto tempo fa è venuto qui lo scrittore inglese Julian Barnes e ha lasciato un pensiero ammirato per l'autore di «Finzioni». Io mi sento preso dall'emozione se penso agli oscuri anni di quest'aiuto bibliotecario che, dice la leggenda, durante l'ora di tram da casa al posto di lavoro, ha imparato da solo l'italiano e, praticamente, mandato a memoria la Divina Commedia. Oltre, naturalmente, a trovare il tempo per scrivere i racconti della sua opera fondamentale, «Finzioni», del 1944.
Borges è una delle cose più importanti capitate all'Argentina, alla lingua spagnola, alla letteratura nel XX secolo. Ed è certo che questa sua particolare forma di genialità - l'eccentricità degli interessi, l'oceanica cultura letteraria, la visione universale della vita e la lucidità della prosa - non sarebbe stata possibile al di fuori del contesto sociale e culturale di Buenos Aires che è, probabilmente, con Parigi, la città più letteraria del mondo. Tutte e due le capitali indossano, come una seconda pelle, una veste letteraria intessuta di miti, leggende, fantasie, aneddoti, immagini che rimandano a racconti, poesie, romanzi, autori e regalano una dimensione tra il fantastico e il libresco a tutto ciò che appartiene loro: cose, case, quartieri, strade e persone.
Molto di quell'Argentina di lettori voraci e universali, di frenetici cosmopoliti e di formidabili poliglotti ancora esiste nella decadente Buenos Aires in cui sono tornato dopo parecchi anni: nelle sue meravigliose librerie di Florida e di Corrientes aperte sino a notte fonda, nei suoi caffè letterari dove si sono cucinate grandi polemiche estetiche e politiche e sono nate quelle riviste culturali che circolavano nell'intera America Latina e ci facevano scoprire tutto ciò che di importante, in campo artistico e letterario, capitava nel resto del mondo. Le pareti del caffè Margot sono piene di scritte, foto e ricordi di illustri autori, musicisti, pittori che si sono seduti e hanno bevuto e hanno discusso per notti intere a questi tavolini fragili e vicinissimi l'uno all'altro dove, con un gruppo di amici, ora ricordiamo alcune glorie passate: Victoria Ocampo, Maria Rosa Oliver, José Bianco. In un angolo del famoso Caffè Tortoni c'è un tavolo al quale è accomodato un Borges di cartapesta a grandezza naturale.
Ma è, soprattutto, in certe persone che questa tradizione civile e intellettuale è ancora viva: dopo molti anni ho avuto la fortuna di incontrare il saggista e filosofo Juan José Seebreli e pochi minuti di conversazione sono bastati per rendermi conto, ancora una volta, della solidità e della vastità della sua cultura filosofica, della disinvoltura con la quale si muove lungo i mondi della storia, della politica, della letteratura. Come molti argentini che ho conosciuto, mi da l'impressione d'uno che abbia letto tutti i libri.
Borges fu allontanato dal lavoro nella biblioteca «Miguel Cane» dal governo di Perón, nel 1946, e degradato, per la sua opposizione al regime, a ispettore municipale ai pollai. E', questo, un simbolo chiaro dell'imbarbarimento della politica che avrebbe portato l'Argentina a una «deriva latinoamericana» e rivelato agli argentini, dopo qualche anno, che essi non erano ciò che in molti credevano d'essere - cittadini d'un paese europeo, colto, civile e democratico, situato per caso in Sud America - ma, purtroppo, nient'altro che una nazione del Terzo Mondo, sottosviluppata e incivile.
L'involuzione da paese più ricco e più «educato» dell'America Latina -una delle prime società del pianeta a sconfiggere l'analfabetismo grazie a un magnifico sistema scolastico - alla realtà attuale è una storia ancora tutta da scrivere. E quando qualcuno la scriverà, ciò che verrà alla luce sarà una sorta di «finzione» borgesiana: un'intera nazione che, a poco a poco, rinuncia a tutto ciò che di essa ha fatto un Paese del primo mondo - la democrazia, l'economia di mercato, l'integrazione con il resto del pianeta, le istituzioni civili, la cultura dell'accoglienza - per impoverirsi, dividersi, insanguinarsi, provincializzarsi, obnubilata dal populismo, dalla demagogia, dall'autoritarismo, dalla dittatura e dal delirio messianico. In estrema sintesi: passare da Jorge Luis Borges ai «piqueteros».
Sono, costoro, l'emblema dell'altra Argentina, quella che ha rifiutato la strada delle civiltà optando per la barbarie. In origine erano, sembra, disoccupati ed emarginati che scendevano in strada per chiedere attenzione e lavoro a un potere che li ignorava, al mondo di quell'ufficialità senz'anima che voltava le spalle a chi più aveva bisogno. Ora sono, piuttosto, la forza d'urto del potere politico. La scorsa notte sono usciti con i loro randelli per scontrarsi con chi si schierava a fianco degli agricoltori che protestavano in Plaza de Mayo per le nuove tasse decise dal governo di Cristina Kirchner sui prodotti della terra. E, effettivamente, li hanno dispersi a bastonate e a calci, in nome della rivoluzione.
Quale rivoluzione? Quella dell'odio. Lo spiega molto bene il loro leader, Luis D'Elias, quando sostiene che la colpa di questa mobilitazione degli agricoltori contro il governo è dei «bianchi». E aggiunge che lui «odia» i bianchi del quartiere Nord e vorrebbe «farla finita» con loro. Domando ai miei amici argentini che cosa voglia dire il leader «picotero» con il termine «bianchi», perché, ovunque io giri lo sguardo e per quanti sforzi io faccia, in Argentina vedo esclusivamente bianchi. Il «picotero» vuole, forse, farla finita con quaranta milioni di suoi compatrioti? Non vedo argentini neri, indi, mulatti, ad eccezione di turisti o di immigrati: D'Elias, nelle sue fantasie omicide e razziste, è disposto a salvare solo costoro?
Qualche giorno dopo ho avuto modo di vedere molto da vicino circa duecento «picoteros» che assaltano il bus che mi sta portando dalla Borsa del Rosario all'Istituto della Libertà, un organismo che compie vent'anni in un anniversario che molti liberali provenienti da tutto il mondo siamo venuti a celebrare. Mentre restiamo bloccati dal giovane manipolo del signor Luis D'Elias - poteva andare anche peggio, visto che questo è solo ultra e, in Argentina, ci sono anche gli ultrà-ultrà - per dieci-quindici minuti in Plaza de la Cooperación e costoro, mettendo in pratica la filosofia del loro mentore, spaccano i vetri del pullman, lo ammaccano a bastonate e a colpi di pietra e lo macchiano con secchiate di vernice, ho tempo e modo di studiare da vicino le facce furibonde dei nostri aggressori. Sono tutti bianchi che più bianchi non si può. I miei compagni e io stiamo debitamente fermi, ma non posso fare a meno d'interrogarmi su cosa succederebbe se, prima che arrivino a liberarci, gli agguerriti «piqueteros» che ci lanciano sassi gettassero una bomba molotov nel bus o riuscissero ad aprire quella porta che stanno provando a scardinare con grande impegno. Ho festeggiato i 72 anni tentando di oppormi con le mie povere forze alla schiacciante furia di quest'orda di selvaggi. Quando tutto finisce, la giovane giornalista equadoriana Gabriela Calderón - è così minuta che è riuscita a infilarsi sotto il sedile come una contorsionista - mi domanda molto seriamente se cose di questo genere mi succedono in tutte le città che visito. Le rispondo di no: tutto questo mi è successo solo nella carissima città di Rosario.
Mi è davvero cara, Rosario, per i tanti ricordi che a essa mi legano e perché è la terra del mio amico Gerardo Dongiovanni e di Mario Borgonovo, un pubblicista che, quando si lancia a cantare tanghi, per ascoltarlo scendono gli angeli dal cielo e salgono i diavoli dall'inferno. Gerardo ha costituito con quattro amici, nel 1988, la Fondazione Libertad, per promuovere nel Paese le idee liberali. Dopo vent'anni questo istituto è una fucina di pensiero, di dibattiti, di pubblicazioni, di seminari e di conferenze che conducono la quotidiana battaglia per la modernizzazione, la tolleranza, il progresso, la democrazia, la prosperità contro quanti ce la mettono tutta per continuare a far retrocedere l'Argentina verso quella che Popper definiva «la cultura della tribù». Durante le discussioni, le tavole rotonde e le mostre di questi giorni, proprio come nell'emozionante mattina in cui ho visitato la biblioteca «Miguel Cane» di Boedo, mi dico, con qualche speranza, che non tutto è perduto e che il fantasma di Borges potrà ancora risvegliare l'Argentina dall'incubo dei «piqueteros».
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