"...Nonostante le voci contrarie, Arrabus funziona; Arrabus è reale; Arrabus, in effetti, è un'esperienza sconvolgente. Chiunque lo dubiti può venire a Wyst e rendersene conto di persona;.... chiunque abbia una pelle sufficientemente spessa e dura può partecipare sia temporaneamente che permanentemente ad un fantastico esperimento sociale, dove il cibo e la casa, come l'aria, vengono considerati un diritto naturale di tutti gli esseri umani....Il nuovo arrivato si troverà sollevato di colpo da tutte le sue angosce. Il suo lavoro consiste in due brevi periodi di "sgobbo" ogni settimana, con altre due ore di "assistenza" all'edificio in cui risiede. Egli si troverà preso immediatamente in una società dedita al piacere e alle frivolezze. Danzerà, canterà, chiacchererà, s'impegolerà in innumerevoli relazioni amorose...."
Così Vance ci descrive subito la metropoli di Arrabus, centro di questo mondo in apparenza idilliaco. La realtà è ben diversa: sotto la facciata utopistica si nasconde un interno squallido e scadente, una cultura in lento decadimento che va progressivamente incontro ad un'inevitabile crisi socio-economica. La struttura lavorativa di Arrabus è carente e artificiosa: le macchine obsolescenti messe in funzione nei turni di due ore di lavoro che tutti i cittadini devono espletare vanno rapidamente deteriorandosi, e nessuno dei pigri abitanti della metropoli è in grado di ripararle, per cui tutto il sistema produttivo diventa schiavo degli esosi tecnici stranieri dei dintorni che si fanno pagare profumatamente i loro preziosi servizi..."
La più grande, di forma all’incirca triangolare, è tutta occupata da una decina di case costruite con la pietra dell’isola, sicché paiono sorgere dallo stesso corpo di questa. Allineate su due lati del triangolo, difese a Libeccio da un muraglione cieco che assorba i residui colpi del mare infuriato, sono unite da un basso porticato in pietra, sopra, piazza rialzata aperta a Maestrale ove radunarsi a veglia e seccare il pesce, sotto, riparo alle imbarcazioni, ché Adrastea, piccola com’è non ha un vero porto e quasi neanche un approdo, e gli uomini, tutti pescatori, sono costretti ad alare gli scafi in secca ad ogni ritorno.
La più piccola ospita una tamerice, bassa e contorta dal vento, cresciuta al riparo di un rialzo della roccia, e un fazzoletto di erba stenta. Altra vegetazione non cresce sullo scoglio, ma è qui che sgorga, perenne, la fonte che ha consentito alla vita di abbarbicarsi, in un remoto passato, alla roccia persa nel mare.
Chi si trovasse a sorvolare l’isola in un giorno di sole, col mare calmo, vedrebbe il fondo marino sollevarsi dal blu profondo ed insondabile, circondando i due scogli con una distesa di massi, franti e scomposti nell’acqua, prima smeraldina e poi limpidissima al piede delle case.
Queste, senza tempo, corrose dal vento, le commessure tra le pietre smangiate dal salmastro, formano un corpo unico con lo scoglio maggiore, unito al minore da un ponticello massiccio, solo regalo della modernità assieme alla conduttura di ferro zincato che emerge storta ai piedi della tamerice, raccogliendo l’acqua della fonte che ne sgorga libera e perenne per perdersi in mare.
Non è proprio vero, però, che i tempi moderni non abbiano portato altro ad Adrastea. C’è in effetti la vedetta della Marina che sbarca settimanalmente, tempo permettendo, la posta ed un po’ di verdura per gli abitanti dello scoglio, il radiotelefono a batterie, ché gli Adrastini non beneficiano dell’energia elettrica e di tutto ciò che vi è connesso e, da pochissimo, l’elisoccorso, portentoso ausilio per i rari malesseri veramente gravi della trentina di isolani.
Assieme alla verdura, che ha variato un po’ la dieta degli Adrastini, da secoli alghe e pesce, cotti su fuochi di alghe secche e pressate, il ché li avvicinava, inconsapevoli, a certe popolazioni marinare d’Oriente, è sbarcata però anche una certa inquietudine. Questa, oltre a far rammentare ai vecchi l’unica palese attenzione che avessero ricevuto dallo Stato: la visita di una commissione parlamentare, sbarcata fortunosamente da una tartana, poco dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia! peraltro non seguita da alcuna concreta iniziativa volta ad alleviare l’isolamento del luogo, questa inquietudine, dicevamo, aveva instillato negli isolani il desiderio di un cambiamento. Quale non avrebbero saputo dire, ma di un cambiamento si doveva trattare.
Ed in effetti, fosse intervenuta una di quelle che Jung chiama “sincronicità”, fosse che anche nel continente era maturato il tempo della riscoperta delle “comunità isolate”, questi rudi pescatori, diretti discendenti dei Fenici, toppo poveri anche per essere seriamente depredati dai pirati Barbareschi che, quando sbarcavano – cosa che un tempo avveniva spesso – si limitavano ad una breve sosta e ad un’eventuale forzoso commercio carnale con le poche giovani dell’isola, insomma questa enclave primitiva ed intatta era stata recentemente visitata da un grosso imprenditore. Premettiamo che, da qualche anno, complice la ventata di apparente benessere che aveva investito il Paese (cellulari, S.U.V., ristoranti pieni ne erano il triste sintomo) nell’assenza più totale di un minimo di accettabili servizi collettivi, evidentemente non necessari alla definizione del livello di benessere/civiltà nazionale, da qualche anno dicevo, in Luglio ed Agosto verso le undici di mattina attorno ad Adrastea si materializzava un nomero crescente di panfili.
Tutte le dimensioni ed ogni grado del lusso – dell’essenzialità del superfluo – erano rappresentate nell’accolta di lucente metallo e vetroresina che si ancorava (identico il puzzo di kerosene e lo sferragliar di verricelli) sul bassofondo dell’isola. Era il popolo, abbronzato, liftato, avvolto di seta cruda e lino, di quelli che fuggono.
Convergevano da ogni punto dell’orizzonte avvolgendo l’isola e i suoi abitanti “così autentici! vedessi, mia cara, la semplicità e l’eleganza di quelle case!” in un carosello di tender to, gommoni, schiamazzi, puzzo di gamberoni fritti misto ad olio solare….fino alle quattro del pomeriggio. A quell’ora una subliminale sirena richiamava il popolo di quelli in eterna fuga. In un ruggir di motori scomparivano all’orizzonte, verso lo shampoo, la crema doposole, l’aperitivo e la cenetta in un altro luogo così autentico, lasciando Adrastea alla sua solitudine. Era stato così – inquadrata nell'oblò della deckhouse di un motoryacht (un facoltoso amico, avvocato...)- che il nostro grosso imprenditore l’aveva scoperta.
Era un imprenditore grosso davvero, con interessi diretti o per interposta persona nei più diversi campi ed anche se la sua vera fortuna si era materializzata un pomeriggio, come dire? per contanti, in biglietti di piccolo taglio, nello studio di un notaio, non poteva dimenticare l’attività di palazzinaro che aveva preceduto ed in un certo senso preparato, quel pomeriggio sorprendente e misterioso. La vista dell’isola, perfetta nella sua essenzialità, aveva risvegliato in lui l’immobiliarista. Erano iniziati così dei discreti, ma concreti, contatti volti alla trasformazione di Adrastea in un resort esclusivo, previa deportazione (spiace chiamarla con il suo vero nome) degli abitanti – superflui – in uno dei quartieri dormitorio di cui il nostro aveva disseminato il Paese nel corso delle sua attività di “prima”. La Regione ( a statuto specialissimo) alla quale Adrastea, per quanto remota, apparteneva, governata da amici fidati, aveva nel frattempo dato il suo largo ed entusiatico assenso e la piccola popolazione, abbagliata dalla prospettiva di un mutamento così improvviso delle proprie condizioni non aveva sulle prime detto di no, lasciando agli anziani il compito di condurre le trattative.
Era stato il Nostro piuttosto, ad un certo punto, a sentire la piccolezza dell'isola: un posto senza vie di fuga, dove era giocoforza stare di fronte a se stessi! Cosa, oltreché pericolosa anche sommamente noiosa per quelli che fuggono.
[1] La mia prima lettura di fantascienza risale al 1956. Di Arthur C. Clarke (del quale tutti ricordano per lo meno "2001 - Odissea nello Spazio") si trattò di "The City and the Stars" New York Harcourt, Brace & World 1956, pubblicato in italiano lo stesso anno da Mondadori nella collana "Urania". Mi rammento come se fosse oggi l'emozione che mi procurò la descrizione del misterioso sito di Shalmirane, deserto ed in rovina sotto la tremolante luce degli astri. Da allora, con fedeltà variabile, (anche se mi sono allontanato presto dalla "Space Opera"), non ho più cessato di leggere fantascienza, trovandovi spesso ottimi autori, ore di vero divertimento e acute, sorprendenti (ed inquietanti) anticipazioni del presente. Ma, per quelli che hanno fatto una smorfietta, ecco qua una citazione coltissima: Hannah Harendt nel suo "Condition de l'Homme Moderne" Calmann-Lévy Parigi 1961, prendendo spunto dal lancio del primo satellite artificiale (1957) e dalla frase: "L'humanité ne sera pas toujours rivée à la Terre", scrive: "La banalité de la phrase ne doit pas nous faire oublier qu'elle était, en fait, extraordinaire; car si le chrétiens ont parlé de la Terre comme d'une valée de larmes et si les philosphes n'ont vu dans le corps qu'une vile prison de l'esprit ou de l'ame, personne dans l'histoire de genre humain n'a jamais considéré la Terre comme la prison du corps, ni montré tant d'empressemente à s'en aller littéralement, dans la Lune..."
[2] H. Harendt, op. cit. pag. 38. L'Autrice distingue qui tra travail inteso come mezzo per riprodurre l'eterno cerchio dell'esistere e il cui prodotto è perissable e l'œuvre: l"'aspect principal de l'œuvre, d'un point de vue temporel, c'est sa capacité de durer" sintetizza Paul Ricœur nella prefazione al testo. I frivoli Arrabini di Vance hanno deliberatamente rinunciato alla dimensione dell'œuvre.
[3] James Hillman ne "La Vana Fuga dagli Dei" Adelphi Milano 1991 (prima ed. Eranos Jarhbuch 43 - 1974) scrive: "...L'idea di Zeus che governa il mondo in stretta collaborazione con Ananke (Euripide, Alcesti, v.v. 978-79) diventa con l'orfismo l'immagine di Zeus con la sua nutrice Adrastea, che è un altro nome di Ananke. Adrastea è la nutrice di Zeus, il quale, succhiando dal seno della necessità, assorbe con quel latte il proprio potere e la propria saggezza. In alcuni contesti la nutrice Adrastea è sua figlia, sicché il legame tra i due si esprime nello stretto vincolo della parentela, degli obblighi familiari, addirittura dell'amore incestuoso. Questa immagine orfica rivela la possibilità di un rapporto di amore e di nutrizione con la necessità. Qui la relazione con il suo potere è vista non tanto come servitù oppressiva quanto come dipendenza dal latte dell'anima madre-figlia..."
Nessun commento:
Posta un commento